Il riallineamento a Trump: l'inchiesta del Washington Post sul 6 gennaio | Il Foglio

2022-10-10 05:36:39 By : Ms. Cathy Wang

Lo sconvolgimento per l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio e le accuse all’ex presidente per aver incitato la rivolta durarono pochi giorni. Poi quasi tutti, sostenitori e parlamentari, tornarono a sperare di ribaltare Biden. La quarta e ultima puntata

Questo è il quarto e ultimo appuntamento con l’inchiesta a puntate “The attack” sull’assalto al Campidoglio americano del 6 gennaio del 2021. La terza puntata, la seconda e la prima le trovate qui.

Alla fine di ottobre, nel 2021, il Washington Post pubblicò una enorme inchiesta sui fatti del 6 gennaio, il giorno in cui i sostenitori dell’ex presidente Donald Trump assalirono il Campidoglio a Washington. “The attack” è il titolo dell’inchiesta che ha coinvolto molti giornalisti del quotidiano e che ha preso, all’inizio di quest’anno, il premio Pulitzer: si basa su interviste a più di 230 persone e migliaia di pagine di atti giudiziari e rapporti interni delle autorità di pubblica sicurezza, oltre a centinaia di video, fotografie e registrazioni audio. Alcuni degli intervistati hanno parlato in forma anonima, altri no. Gran parte delle informazioni raccolte e pubblicate dal Washington Post sono servite alla commissione speciale del Congresso per articolare la propria indagine: le testimonianze sono andate in diretta tv negli ultimi mesi e molte delle ricostruzioni di queste pagine sono state ulteriormente verificate, circostanziate e confermate. Abbiamo deciso di pubblicare per intero questa inchiesta perché gli effetti del 6 gennaio sono ancora molto visibili nella politica americana. Non si tratta soltanto di effetti penali, che devono ancora essere valutati soprattutto per quel che riguarda il destino di Donald Trump. Sono gli effetti politici a essere molto rilevanti: l’assalto del 6 gennaio è il mito fondativo del post trumpismo, un movimento che è tutt’altro che minoritario nel Partito repubblicano, come dimostrano le selezioni in vista delle elezioni di metà mandato a novembre. E il Partito repubblicano non ha ancora fatto i conti con Trump e spesso sembra anzi non volerli fare. Anche per questo l’inchiesta del Washington Post continua ad avere una grande rilevanza. In queste pagine trovate la quarta puntata: gli effetti dell’assalto al Campidoglio.

Il 7 gennaio, a bordo di un bus che avanzava lento verso la Florida, Paul Hodgkins si sentiva a disagio. Il gruista 38enne aveva seguito la folla fin dentro il Campidoglio e si era ritrovato nel Senato, con in pugno la bandiera di Trump proprio accanto al banco dove il vicepresidente Mike Pence era stato seduto appena 40 minuti prima. Quasi immediatamente, quello che al momento gli era sembrato uno strano sogno aveva cominciato a coagularsi in qualcosa di molto più sinistro. Uscendo dal palazzo, Hodgkins aveva visto gente che faceva a botte e aveva saputo che una donna era stata uccisa a colpi d’arma da fuoco. Sul bus, qualcuno dei suoi compagni di viaggio continuava ad aggrapparsi alla speranza che in qualche modo Trump sarebbe rimasto presidente.  Hodgkins era scettico. “Non vedo come sia possibile”, ricorda di aver pensato. “Dobbiamo tutti mandare giù l’idea che debba lasciare la presidenza”.

Quando Douglas Jensen ritornò a casa sua in Iowa, un sacco di gente in tutto il mondo aveva ormai già visto il video in cui l’operaio 41enne con indosso una maglietta di QAnon inseguiva l’agente della polizia del Campidoglio Eugene Goodman su per una scalinata di marmo fuori dall’aula del Senato. Anche la moglie di Jensen aveva visto i notiziari. Di fronte ai suoi rimproveri, al mattino presto dell’8 gennaio Jensen andò al dipartimento di polizia di Des Moines e si fece interrogare per ore da due agenti dell’Fbi. 

Jensen disse agli agenti che quel giorno non aveva in programma di andare al Campidoglio, ma che lo aveva fatto per seguire le indicazioni di Trump. Disse che voleva vedere di persona l’arresto del vicepresidente e dei membri del Congresso. Disse di essere un patriota. Nonostante il 6 gennaio non fosse andato come aveva sperato, lui pensava ancora che Pence e i membri del Congresso sarebbero stati arrestati all’Inauguration Day, il giorno dell’insediamento del nuovo presidente. Ma fece anche capire che aveva qualche dubbio, e chiese agli agenti che lo interrogavano se per caso non lo avessero fregato: “Ditemi la verità, sapete mica se questi arresti sono veri?”.

Alcuni rivoltosi mostrarono cenni di rimorso dopo l’insurrezione, ma altri no. Persino quando si trovarono a dover far fronte alle conseguenze delle proprie azioni, continuavano a ripetere le infinite false rivendicazioni di Trump, e si inventavano nuove teorie fasulle sulle schede rubate, che condividevano poi all’interno delle proprie comunità. Il giorno dopo l’attacco al Campidoglio, a Longview, Texas, un agente immobiliare di nome Ryan Nichols andò su Facebook per smentire alcune voci che circolavano. In un video fatto in Campidoglio, si vedeva lui che si vantava di partecipare a una “seconda rivoluzione”. Ora voleva che la gente sapesse che dietro le violenze non c’erano i facinorosi anti fascisti, bensì i sostenitori di Trump. “Certo, probabilmente c’erano degli Antifa a Washington, ma non erano abbastanza per ‘assaltare il Parlamento’ da soli”, scrisse Nichols.

Mentre si assottigliava il tempo che gli rimaneva alla Casa Bianca, Trump andò ancora alla carica, nel tentativo di indirizzare le paure dei suoi sostenitori verso una nuova causa. In un video del 7 gennaio il presidente condannò la violenza “efferata” in Campidoglio. Ma nello stesso messaggio, mandò un’indicazione alla sua base e ai suoi rappresentanti eletti. “Continuo a credere fermamente che dobbiamo riformare le nostre leggi elettorali in modo da verificare l’identità e l’ammissibilità di tutti gli elettori e garantire la fiducia in tutte le elezioni future”.

Pence si concentrava di più sulla scampata catastrofe da cui era appena uscito. Due giorni dopo l’attacco, si sedette nel suo ufficio del cerimoniale nell’Eisenhower Executive Office Building, accanto alla Casa Bianca, e scrisse tre serie di lettere a coloro che riteneva essere stati gli eroi del 6 gennaio. Tra questi, gli impiegati del Senato che avevano afferrato le scatole di legno intarsiato contenenti i certificati del collegio elettorale che documentavano il voto di ciascun grande elettore. Questi impiegati avevano protetto i documenti necessari al Congresso per completare il compito che aveva quel giorno. “Voglio ringraziarvi per il vostro lavoro mercoledì e giovedì durante la seduta congiunta del Congresso, ed esprimervi la mia genuina gratitudine per aver portato le scatole con i voti elettorali fuori dall’aula del Senato quando i rivoltosi hanno assaltato il Campidoglio”, scrisse il vice presidente. “I vostri riflessi pronti e il vostro rapido intervento, che hanno permesso di mettere al sicuro le schede e garantire che il lavoro del Congresso potesse continuare, sono lì a testimoniare la vostra forza e dedizione”.

Pence inviò altre lettere simili al parlamentarian della Camera  e al cappellano del Senato, Barry Black. Su richiesta del vice presidente, Black aveva pronunciato una preghiera conclusiva verso le 4 del mattino del 7 gennaio, dopo che il Congresso si era nuovamente riunito e aveva ratificato la vittoria di Joe Biden. Pence firmò a mano tutte le lettere e diede indicazione di inviarle per posta.  Dopo un’iniziale condanna bipartisan della rivolta in Campidoglio, molti politici repubblicani si riallinearono con Trump. “Aveva ancora la base con sé”, ricorda di aver pensato all’epoca un parlamentare repubblicano. Alla stessa conclusione era arrivato anche il leader di minoranza della Camera Kevin McCarthy, deputato della California, che dopo l’insurrezione aveva sospeso le quotidiane telefonate al presidente ma che le riprese qualche giorno dopo, avendo capito che la tenuta di Trump sul partito era più forte che mai. 

Anche l’indignazione di altri repubblicani si dissolse in fretta. Sei giorni dopo aver denunciato Trump dall’aula del Senato, il senatore della South Carolina Lindsey Graham accettò dal presidente un passaggio sull’Air Force One per andare a fare una comparsata in Texas, lungo il confine Stati Uniti-Messico. Il leader repubblicano del Senato Mitch McConnell, del Kentucky, che aveva incolpato il “crescendo di teorie complottiste” di Trump per gli attacchi al Campidoglio, si affrettò a opporsi alle procedure di impeachment che i democratici stavano già cercando di avviare. I consiglieri della campagna di Trump incontrarono il presidente nello Studio ovale per buttar giù un sondaggio che testasse il grado di sostegno dell’opinione pubblica all’impeachment, e poi fecero circolare i risultati tra i repubblicani del Congresso per dimostrare la pericolosità di una mossa del genere. “Andammo da tutti”, ha detto un consigliere di Trump. “Andammo da McConnell, da McCarthy”. Il messaggio: se voti per l’impeachment “sei fottuto”.

A sei giorni dall’insurrezione, a Phoenix rifiorirono le bugie elettorali di Trump. I repubblicani del Senato dell’Arizona citarono in giudizio la contea di Maricopa, chiedendo che consegnasse i 2,1 milioni di schede elettorali che erano state impacchettate in scatoloni di cartone e depositate in una stanza blindata. Trump aveva perso lo stato di un soffio, in gran parte grazie al vantaggio di 45 mila voti che Biden si era assicurato in questa contea, dove si trova Phoenix e vota quasi il 60 per cento degli elettori dell’Arizona. Un riconteggio manuale di un campione di schede aveva confermato l’accuratezza della vittoria di Biden. I giudici statali e federali avevano respinto i ricorsi contro i risultati. A dicembre, un giudice statale aveva bloccato un precedente tentativo del Senato di ottenere le immagini delle schede e le macchine tabulatrici di Maricopa, con la motivazione che il ricorso non era stato presentato in modo corretto.  I senatori repubblicani continuavano imperterriti.  Il nuovo tentativo colse di sorpresa Stephen Richer, neoeletto supervisore della contea di Maricopa, che tra le proprie responsabilità aveva la guida dell’ufficio elettorale della contea.

Richer, che era repubblicano, non aveva alcun motivo di dubitare dei conteggi che avevano portato anche alla sua stessa rimonta a novembre. Durante la notte delle elezioni era stato in svantaggio ma dopo giorni di conteggi – segnati a un certo punto da un tweet di Trump “FERMATE LO SPOGLIO” – aveva superato il candidato uscente democratico.

Il 14 gennaio, Richer si diresse verso la sede del Parlamento dello stato per quello che pensava sarebbe stato un incontro a quattr’occhi per conoscersi meglio con la presidente del Senato, Karen Fann. Sperava che un incontro di persona avrebbe aiutato a stemperare il clima. E invece trovò Fann in una sala riunioni insieme con altri cinque membri del Partito repubblicano. Tralasciando i convenevoli, i parlamentari cominciarono subito a fargli una ramanzina su quanto era ostinata la sua contea. Fann spiegò che gli elettori del suo collegio erano arrabbiati per le elezioni e lei doveva dar loro una risposta. Un altro repubblicano, il senatore Vince Leach, tirò fuori la già smentita teoria dei “marcatori cinematici” – in pratica, il modo in cui le schede erano state piegate – che avrebbero potuto provare se le schede stesse fossero o meno false. Dissero che ora sarebbe stato compito del Senato, e che loro avrebbero condotto una revisione dell’elezione da cima a fondo. I senatori, pensò Richer tra sé e sé, lo stavano trattando come un bambino capriccioso. La speranza di stemperare il clima era ormai svanita. Nessuno accennò alle violenze di Washington. 

Molto più a nord, nella penisola superiore del Michigan, anche la segretaria della contea di Houghton, Jennifer Kelly, era sempre più in ansia. Per settimane aveva dovuto gestire le contestazioni contro la vittoria con un margine stretto di Biden nello stato, molte delle quali provenienti da persone che lei conosceva da una vita. Trump aveva vinto di 14 punti nella contea di Houghton, ma questo non li aveva fermati.

Inizialmente le avevano mandato delle domande brevi e concise – dirette ma educate – sull’indirizzo email ufficiale. Ma nelle settimane che erano seguite all’attacco in Campidoglio le proteste si fecero via via più veementi. Cominciarono a fermare Kelly per strada, al supermercato e dal droghiere, protestando con rabbia contro le forze pro Biden che secondo loro avevano manipolato le macchine fabbricate da Dominion Voting Systems – e così ripetendo una delle molte affermazioni infondate di Trump. “Si percepivano il rancore e l’indignazione per un’elezione che ritenevano essere stata truccata”.

La contea tentò di rispondere a queste preoccupazioni invitando Kurt Knowles, un rappresentante di un’azienda fornitrice delle macchine Dominion, a rispondere alle domande in un incontro pubblico. Il 12 gennaio Knowles apparve via Zoom e si trovò di fronte a una serie di richieste basate su quanto riportato in ambienti della destra secondo cui le macchine a Houghton e nella vicina contea di Keweenaw erano state manomesse per spostare voti da Trump a Biden. “Non è possibile che succeda una cosa simile”, rispose Knowles con sicurezza, spiegando che le macchine non erano collegate a internet. Poi spiegò passo passo tutte le misure di prevenzione che avrebbero impedito lo spostamento di voti. Seduta a un lungo tavolo di legno al fianco dei cinque commissari della contea, Kelly sperava che le spiegazioni dettagliate di un esperto venuto da fuori avrebbero finalmente placato i sospetti. Non fu così. Né quel giorno, e neanche dopo l’insediamento di Biden, il 20 gennaio. Qualche settimana dopo, il Senato assolse Trump dalle accuse di aver ostacolato le elezioni e incitato la rivolta. Soltanto dieci repubblicani alla Camera e sette in Senato avevano appoggiato la richiesta di impeachment.

Mentre l’assemblea generale della Georgia si preparava a convocare una nuova seduta, i parlamentari repubblicani si ritrovarono sommersi. Con email, telefonate, di persona, i loro amici e vicini di casa chiedevano loro nuove leggi per fermare le frodi che avevano impedito la vittoria di Trump – cosa di cui lui stesso aveva convinto i suoi sostenitori. Era la prova più evidente che la base era compatta al fianco dell’ex presidente. Molti senatori dissero al vice governatore Geoff Duncan, repubblicano, che avrebbero dovuto approvare delle nuove leggi elettorali, anche se alcuni di loro ammettevano di non credere nelle accuse di brogli avanzate da Trump. “Capisco che tu pensi di dover rispondere a quella che credi sia la volontà del tuo collegio”, rispondeva loro Duncan, che presiede il Senato statale. “Ma in fin dei conti devi essere onesto con loro. Se uno dice che la Terra è piatta, tu devi controbattere con forza, perché sai che non è piatta”.

Come molti dei suoi colleghi del Partito repubblicano, il deputato Alan Powell non credeva che fossero emersi elementi probanti in grado di compromettere le elezioni del 2020. Ma riteneva possibile che ci fosse stato qualche broglio, ed era a favore di un rafforzamento delle leggi per rendere più difficile truccare il voto in futuro.

Durante una riunione in commissione a febbraio, Powell provò a esporre il proprio punto di vista, dicendo che “non erano state trovate” frodi estese. “La loro esistenza è solo nella testa di alcuni”. Le mail di odio e le telefonate di insulti fioccarono. Un sostenitore di Trump chiamò dal Massachusetts per dire a Powell: “So chi sei e so dove vivi perché il tuo indirizzo è pubblico”. I suoi colleghi pregarono Powell di denunciare la telefonata alle forze dell’ordine. Invece lui lo richiamò. L’uomo, un detective di polizia in pensione, gli assicurò che non aveva voluto mandargli un messaggio minaccioso. “Mi fido della sua parola”, rispose Powell.

C’era una pressione così forte che il presidente della Camera David Ralston, un repubblicano, diede il via libera ai deputati del partito perché presentassero tutte le leggi elettorali che volevano, a prescindere da quanto restrittive fossero. Furono alla fine decine i parlamentari repubblicani che presentarono provvedimenti in nome della protezione delle elezioni in Georgia.

Però c’era un limite: i capi del partito locale erano ansiosi di compiacere Trump ma non volevano danneggiare la partecipazione al voto dei repubblicani. Quando i suoi colleghi avanzarono l’ipotesi di vietare le cassette elettorali in strada, Ralston mise a tacere l’idea dopo che un sondaggio interno aveva indicato che molti elettori repubblicani preferivano il metodo del voto espresso al di fuori del seggio.  In una serie di dibattiti che cominciarono all’inizio di febbraio, molti georgiani sostennero senza alcuna prova che migliaia di non cittadini avevano votato alle elezioni, che nella zona di Atlanta migliaia di voti postali erano stati esposti a una violazione delle norme di sicurezza, che il tempo impiegato dagli scrutatori per completare lo spoglio – una settimana circa – era la prova dei brogli. Alcuni osservatori ai seggi testimoniarono di non ritenere il sistema affidabile non perché avessero visto alcunché di sospetto, ma perché non erano riusciti a vedere tutto ciò che stava accadendo. “Lì dentro avrebbero potuto costruire una nave e io non avrei saputo distinguerla perché non ci si poteva avvicinare abbastanza”, disse una donna, Ginger Bradshaw, una fiorista della contea di Fulton che raccontò di aver visto “barricate” e “grandi schermi azzurri” eretti intorno ai seggi del centro congressi di Atlanta dove lei aveva prestato servizio come osservatrice elettorale. 

Bradshaw non disse di aver assistito a dei brogli. Ma i resoconti come il suo non facevano che rafforzare i parlamentari che stavano propugnando leggi che garantissero più poteri agli osservatori elettorali. Duncan fu assalito dalla paura quando la prima consistente proposta di legge arrivò in aula al Senato. Una proposta così restrittiva che i leader della Camera avevano già detto che non sarebbe mai passata nell’altro ramo del Parlamento. Quel giorno Duncan non se la sentì di presiedere la seduta del Senato. Se ne stette seduto nel suo ufficio a guardare il dibattito in tv.

Il mattino del 16 febbraio, una decina di poliziotti si presentò a casa di Paul Hodgkins, a Tampa. Svegliato dai forti colpi alla porta, afferrò un asciugamano, lo avvolse intorno alla vita e andò ad aprire. “Mani in alto!”, urlò un agente, la mano sulla fondina della pistola. Hodgkins lasciò cadere a terra l’asciugamano.

Dopo che un agente lo ebbe aiutato a infilarsi un paio di pantaloncini, Hodgkins consegnò i suoi due telefoni, il computer, un tablet, i vestiti che aveva indossato per andare in Campidoglio, la bandiera di Trump, lo zaino e quattro pistole che teneva nell’armadio e nel furgone. Venne rilasciato su cauzione qualche ora dopo e portato al tribunale federale di Tampa.

Hodgkins fu accusato di cinque reati, tra cui l’ostruzione di un procedimento pubblico. L’ex pluridecorato boy scout, che non aveva mai avuto guai con la giustizia, era mortificato. “Quella gente si è comportata come una massa di ragazzini e hanno distrutto un posto solo perché non avevano ottenuto quello che volevano, e quando mi sono reso conto che era andata a finire in quel modo, mi sono sentito uno schifo”, ha detto. “Non mi sento di aver sbagliato nel chiedere una verifica o sostenere Donald Trump, ma mi pento di aver superato quel limite. Avrei dovuto rimanermene a casa”.

Dopo aver sbagliato tutto nel prevedere l’attacco del 6 gennaio, l’Fbi stava affannosamente cercando di rintracciare centinaia di persone nel mezzo di quella folla di bianchi che quel giorno erano sciamati dentro il Campidoglio e poi se n’erano andati indisturbati. All’interno dell’Fbi e del dipartimento di Giustizia c’era chi ammetteva in privato che l’agenzia non aveva del tutto compreso l’entità del pericolo. I capi semplicemente non credevano che il tipo di persona che partecipa a un comizio di Trump sia poi capace di infrangere la legge, per non parlare di commettere violenze. “C’era una convinzione radicata”, ha raccontato una persona a conoscenza del lavoro dell’Fbi prima e dopo il 6 gennaio. “Eravamo convinti che persone di mezza età, in generale rispettose della legge, non bruciano, saccheggiano o lanciano oggetti contro i poliziotti. Avevamo sottovalutato la disperazione, la rabbia e la natura complottista di quella folla”.

Un alto funzionario dell’Fbi ha detto che il Bureau “è totalmente in disaccordo con questa descrizione. Come è stato dimostrato dal nostro modo di agire nel periodo precedente al 6 gennaio, ci trovavamo di fronte a uno scenario del tutto inedito. L’Fbi prese molto sul serio le minacce di violenza e reagì di conseguenza”.

A nord del Campidoglio, in un edificio color sabbia che ospita il centro operativo dell’Fbi di Washington, le indagini sul 6 gennaio si stavano trasformando in un lavoro 24 ore su 24, sette giorni su sette. Per aiutare con l’immane mole di lavoro, vennero inviati altri agenti di rinforzo, compresa un’intera classe di diplomati freschi dell’accademia dell’agenzia di Quantico, Virginia. Subito fuori era stata piazzata la “balena azzurra”, uno dei comandi operativi mobili dell’Fbi, stracolmo di ulteriori strumentazioni per la sorveglianza e la comunicazione. In un primo momento, l’Fbi quasi non riusciva a tenere il conto di quelli che gli agenti e i giudici definivano i “bersagli facili” – i colpevoli che avevano allegramente postato online i video di se stessi mentre infrangevano la legge. Ogni giorno arrivavano fiumi di nuove informazioni e il Bureau le diramava in giro per il paese alle sedi locali. Molte si rivelarono inutili, ma una piccola parte di esse produssero indicazioni importanti, contribuendo a far coincidere nomi e account social con delle immagini sfocate di volti nei video.

L’Fbi mise rapidamente in piedi un sistema di raccolta digitale che potesse gestire tutte le informazioni, simile a quello usato con successo dopo la strage al concerto di Las Vegas nel 2017. Ora quel modello veniva testato al massimo livello. I dati dei telefoni cellulari registrati intorno al Campidoglio si rivelarono una miniera per le indagini. Gli agenti estrassero rapidamente tutti i numeri che comparivano con regolarità e che probabilmente appartenevano ai parlamentari, agli impiegati e ai lobbisti, e si concentrarono su quelli che erano spuntati solo il 6 gennaio. Ne uscirono centinaia di nuovi sospetti che potevano essere incrociati con gli account social, le registrazioni del Telepass autostradale e le ricevute delle carte di credito.

Gli investigatori federali si concentrarono anche su un altro profondo pozzo di informazioni: i post di minacce comparsi sui social che gli analisti, gli accademici e gli ex membri delle forze dell’ordine avevano segnalato nelle settimane precedenti il 6 gennaio.

Gli agenti dell’Fbi volevano condividere le loro piste con il dipartimento per la Sicurezza nazionale di Washington, i cui agenti avevano cercato di fornirgli informazioni circa le minacce online prima dell’attacco. Il capo dell’intelligence del dipartimento, Donell Harvin, che aveva invitato l’Fbi a visionare quel materiale due giorni prima del 6 gennaio, accettò di mandare due suoi analisti a lavorare a tempo pieno in un task force federale incaricata di identificare i sospetti. Nelle prime otto settimane di indagine, le autorità federali arrestarono centinaia di persone accusate di crimini relativi all’attacco in Campidoglio.

Il Bureau si concentrò anche su un’altra sequenza particolarmente inquietante di fatti avvenuti quel giorno: gli ordigni artigianali rinvenuti al di fuori dei comitati nazionali repubblicano e democratico a Capitol Hill. All’inizio delle indagini, alcuni investigatori avevano sospettato che le bombe fossero state piazzate con l’intento di allontanare il più possibile le forze di sicurezza dalla massa crescente di manifestanti. Altri agenti però ritenevano improbabile questa ipotesi perché le bombe erano state piazzate nottetempo, e l’autore dell’atto non poteva sapere quando sarebbero state scoperte. 48 giorni dopo

A Capitol Hill, i parlamentari cominciarono a chiedere con insistenza alla polizia del Campidoglio come mai avessero abbassato la guardia in quel modo. Il capo, Yogananda Pittman, riconobbe che il dipartimento non aveva predisposto un numero sufficiente di agenti intorno all’edificio, non aveva fornito abbastanza bombolette urticanti e altre armi di contenimento della folla, e non aveva seguito le procedure di blindatura del palazzo, cosicché il Campidoglio e i suoi occupanti erano rimasti esposti all’orda dei saccheggiatori.

I rivoltosi avevano anche sfruttato due punti vulnerabili dell’edificio. La maggior parte delle finestre esterne del Campidoglio erano dotate di vetri anti sfondamento, ma alcuni sostenitori di Trump avevano infranto le poche che non erano blindate, e si erano riversati all’interno proprio all’inizio dell’attacco. E mentre l’assedio aumentava e le Guardie di sicurezza garantivano ai parlamentari che le porte esterne avevano un sistema di chiusura automatico che avrebbe tenuto fuori la folla, i rivoltosi che avevano scavalcato le finestre riuscirono ad aprire le porte dall’interno spingendo e tenendo abbassate le barre di bloccaggio, in modo da innescare un sistema antincendio. A quel punto gli altri rivoltosi erano riusciti a riversarsi attraverso gli ingressi.

Il capitano Carneysha Mendoza raccontò alla commissione per la Sicurezza interna e gli affari governativi del Senato che lei stessa si era precipitata ad aiutare i colleghi, e si era ritrovata in trappola tra i rivoltosi mentre cercava di farsi largo fino alla Rotonda. A un certo punto, il braccio le si era incastrato in una ringhiera e se l’era quasi rotto. “Tra i tanti eventi in cui mi sono trovata a lavorare nei miei quasi 19 anni di carriera al dipartimento”, testimoniò a febbraio, di fronte a una commissione che l’ascoltava assorta, “questo è stato di gran lunga il peggio del peggio. Avremmo potuto avere dieci volte tanto il numero di persone al lavoro con noi e sono convinta che quella battaglia sarebbe stata altrettanto devastante”.

Durante l’assedio almeno 140 agenti della polizia del Campidoglio e della città di Washington furono picchiati – e uscirono dagli scontri con arti rotti, traumi, tagli e dolori al petto. Due dei poliziotti che avevano partecipato agli scontri si tolsero la vita nei nove giorni che seguirono. Sicknick, che era stato ricoperto di uno spray chimico, subì due infarti. In seguito l’autopsia rilevò che era morto per cause naturali ma che “tutto quello che aveva inalato aveva aggravato le sue condizioni”.

Mendoza era tra i feriti. Per settimane, aveva cercato di ignorare le ustioni in faccia, e teneva in frigorifero una scorta di foglie di aloe fresca da strofinare sulla guancia per avere un po’ di sollievo. Ma il dolore peggiorò al punto da tenerla sveglia di notte, e così si decise ad andare al pronto soccorso. I medici le diagnosticarono ustioni da sostanze chimiche e un’infezione della pelle. Le prescrissero degli antibiotici e alla fine si ritrovò a dover prendere sei tipi di farmaci. Un problema ulteriore fu tentare di proteggere suo figlio Christian, che all’epoca aveva 10 anni. All’inizio Mendoza cercò di nascondergli il trauma di quella giornata, lo lasciò a vivere da uno zio nelle settimane successive, mentre lei lavorava senza sosta e faceva fatica a dormire.  Ma dopo l’audizione, Christian cercò il nome di lei online e scopri la testimonianza che aveva reso in Senato. “Mamma, ci sono una cosa come un milione di foto tue”, disse. E trovò il coraggio di chiederle: “Quand’è che ti trovi un altro lavoro?”. Mendoza non era pronta per quella domanda. “Senti, è questo il mio lavoro”, balbettò, per poi pentirsi subito di quelle parole. “Serve a pagare le bollette. Che vuoi? Finire sotto i ponti?”.

Erano i primi di marzo. Clint Hickman, il presidente dei supervisori della contea di Maricopa, riusciva a vedere il pennacchio di fumo che si levava in lontananza a trenta chilometri di distanza, e che si avvicinava sempre di più mentre lui accelerava col suo pickup attraverso il deserto sulla Interstate 10. C’erano già stati degli incendi nell’azienda avicola della sua famiglia, da quando sua nonna l’aveva fondata nel 1944. Un rischio naturale in una zona di tempeste di sabbia e con gli enormi pollai di legno. Ma già dall’abitacolo del furgone si rendeva conto che questo rogo sarebbe stato il più grave nella storia della sua famiglia. Il pollaio in fiamme era pieno di decine di migliaia di animali.

I vigili del fuoco avevano combattuto le fiamme per tutto il pomeriggio. L’incendio era divampato quando un escavatore usato per rimuovere il letame si era surriscaldato. Mentre Hickman si dava da fare per aiutare, il telefono continuava a squillare con messaggi e chiamate di amici e colleghi. Oltre ai messaggi di solidarietà, alcuni gli facevano una domanda strana: aveva visto l’articolo del Gateway Pundit? Il sito di destra titolava: “Dopo il ritrovamento stamattina di alcune schede stracciate in un cassonetto, un incendio misterioso si è sviluppato nell’azienda agricola del supervisore della contea di Maricopa”.

L’articolo pieno di insinuazioni sosteneva che i funzionari di Maricopa come Hickman avevano cospirato per nascondere le schede delle presidenziali del 2020 prima di consegnarle al Senato dello stato per i controlli. “Si spera che ci sia un’indagine approfondita su questi incendi”, concludeva l’articolo, insinuando che nel pollaio fossero bruciate le schede stracciate. Hickam era esterrefatto.  “Per noi fu la giornata più terribile”, ha detto. “E questa cosa era semplicemente sconvolgente”.  L’incendio uccise 165 mila polli. Nonostante la polizia avesse indicato rapidamente le cause e smentito l’accusa delle schede distrutte, continuavano a fiorire le illazioni. Secondo una versione, Hickman avrebbe riempito i pollai con le schede per poi dargli fuoco. Altri teorizzavano che lui fosse pronto a denunciare altri colleghi corrotti della contea e che l’incendio fosse stato appiccato per mandargli un avvertimento. Nella più bizzarra delle ipotesi, Hickman fu accusato di aver triturato le schede nel mangime dei polli, per poi appiccare il fuoco per coprire il delitto. Per mesi continuarono ad arrivare email e telefonate infuriate. 


Le false teorie sulle elezioni filtravano e ribollivano in tutto il paese, facendosi via via più intricate man mano che i sostenitori di Trump si scambiavano le accuse sui gruppi Facebook e i canali Telegram.  Alcuni sostenevano che le macchine tabulatrici erano state manomesse – dai cinesi, o dagli iraniani, o dai venezuelani, o da orde di comunisti. Altri affermavano che i democratici avevano sfruttato l’ampliamento del voto postale, conseguenza della pandemia, per inondare il sistema con false schede in favore di Biden.

Fondamentalmente, tutte le teorie erano radicate nell’incapacità dei più strenui sostenitori di Trump di accettare che milioni di loro concittadini avessero respinto il presidente. 

Dopo essere stati imbeccati per anni dagli oscuri allarmi di Trump sul deep state (teoria complottista secondo cui esisterebbero dei poteri occulti che condizionano l’agenda pubblica, ndt), molti ritenevano plausibile che migliaia di volontari e pubblici ufficiali che amministravano le elezioni nel paese avessero truccato l’intera operazione. Gabriel Sterling, un consulente del segretario di stato della Georgia Brad Raffensperger, lo sentì dire persino a dei suoi familiari.

Sterling era un repubblicano di lunga data, aveva diretto campagne elettorali, lavorato a Washington per un parlamentare del Partito repubblicano ed era stato membro del consiglio comunale di Sandy Springs City, alla periferia di Atlanta. Aveva votato per Trump nel 2016 e nel 2020. Ma nelle settimane successive alle elezioni, di fronte al vortice di false accuse di frode in Georgia, aveva denunciato con forza coloro che rilanciavano queste teorie infondate. Questa sua presa di posizione pubblica lo fece finire ai ferri corti con la sua famiglia conservatrice. Un parente lo sommerse di messaggi via Facebook. “Il fatto che ci siano stati più voti che elettori registrati negli Stati Uniti non avrà mai una spiegazione plausibile”, gli scrisse a febbraio.  “Non è vero che ci sono stati più voti che elettori registrati”, gli rispose Sterling. “TUTTI gli americani sono andati a dormire con Trump in grande vantaggio in tutto il paese, per poi svegliarsi e ritrovarselo in svantaggio considerevole”, gli scrisse a marzo il parente, in un lungo messaggio che riecheggiava le false teorie, rese popolari dalla star di Fox News Sean Hannity e da altri, secondo cui la vittoria di Biden era statisticamente impossibile. E concluse: “Eddai Gabe! Credi davvero a queste st…ate?”.

Sterling rispose di nuovo, pazientemente. “Molte delle accuse arrivano da persone che non mentono ma non capiscono quello che vedono”, scrisse.

Mentre le teorie sulle elezioni del 2020 si diffondevano per metastasi, molti repubblicani cominciarono a rielaborare la narrazione dell’attacco del 6 gennaio come di un evento pacifico, descrivendo i rivoltosi come dei patrioti e dei prigionieri politici – tacitamente ascrivendo la violenza di piazza nel novero dei metodi di protesta accettabili.

A marzo, durante un’intervista a una radio conservatrice, il senatore repubblicano del Wisconsin Ron Johnson disse di non essersi mai sentito minacciato perché sapeva che “quella gente ama questo paese, rispetta profondamente le forze dell’ordine, non avrebbe fatto mai nulla per infrangere la legge”. Qualche settimana dopo, Trump disse a Laura Ingraham di Fox News che quel giorno era stato una “festa dell’amore”, in cui la gente “abbracciava e baciava” i poliziotti.

In media l’Fbi stava arrestando quattro sospetti al giorno. Il giorno dopo l’intervista di Trump, un uomo di Washington fu incriminato per aver ripetutamente picchiato i poliziotti con una lunga asta avvolta nei colori della bandiera americana, rosso, bianco e blu. E un uomo del Texas fu arrestato e accusato di aver colpito degli agenti con i loro stessi scudi, dopo averglieli sottratti, e di aver poi dato fuoco a un oggetto e averlo lanciato contro il cordone di polizia.

Alcuni degli accusati stavano già dando a vedere di voler addossare a Trump tutta la responsabilità delle proprie azioni. 

“Sono andato a Washington perché pensavo che fosse questo che il presidente ci chiedeva di fare”, scrisse l’agente immobiliare texano Nichols in un infruttuoso appello ai giudici per poter essere rilasciato su cauzione. Negli atti giudiziari si legge che, assieme a un suo amico, Nichols aveva incitato gli altri manifestanti a compiere atti di violenza e devastazione e ad assalire gli agenti della polizia del Campidoglio. “Me ne sono andato quando il presidente ha scritto su Twitter e Facebook che dovevamo andarcene tutti”, disse Nichols al giudice.

Alcuni giudici pensavano che la retorica di Trump non fosse solo la scusante per le azioni dei rivoltosi, ma una minaccia ancora attuale. Lanciarono un monito: le sue lodi ai ribelli e il suo rifiuto di accettare i risultati elettorali avrebbero potuto perpetuare la radicalizzazione della sua base. “Quel martellamento incessante che ha portato gli accusati ad armarsi non si è dissolto”, ha scritto il giudice del distretto federale Amy Berman Jackson, ordinando la custodia cautelare in attesa di giudizio per uno degli accusati. “La fandonia delle elezioni rubate viene ripetuta quotidianamente su grandi organi nazionali di informazione e nei corridoi del potere di organismi governativi statali e federali, per non parlare degli sfoghi quasi giornalieri dell’ex presidente”. Ed era in realtà evidente che l’attrattiva di Trump era ancora forte anche tra coloro che rischiavano la galera.

Ronald “Ronnie” Sandlin, del Tennessee, accusato di aver cospirato con altri due uomini per portare delle armi in Campidoglio, aveva detto più volte al giudice di essere pentito delle sue azioni. Durante un’udienza lo sentirono piangere. “Vostro onore, abbia pietà di me”, disse Sandlin. “Per favore”. Ma lanciava messaggi completamente diversi ad amici e familiari. “Sono in cella con tutta la gente del Campidoglio”, scrisse in un messaggio alla madre il 30 marzo. “Sono fiero di chiamarli miei amici, ci siamo battuti per ciò in cui crediamo e ci siamo sacrificati”. “Può sembrare egocentrico ma credo davvero di avere una missione divina da compiere e io/noi abbiamo fatto la storia quel giorno e le vere implicazioni delle nostre azioni devono ancora essere comprese del tutto”, scrisse.

Per chi ancora lottava con le conseguenze di quel giorno, le implicazioni erano già molto chiare. Mendoza e gli altri poliziotti cercavano di consolarsi a vicenda in una chat, si scambiavano incubi e paure, spesso la sera tardi. Mendoza lavorava senza sosta, ma le rare volte che aveva tempo di riposarsi, dormiva male, angosciata da un sogno ricorrente di qualcuno che le entrava in casa. 

Le pressioni di Trump e dei suoi sostenitori stavano dando risultati un po’ in tutto il paese. A metà aprile, oltre due milioni di schede e centinaia di macchine tabulatrici della contea di Maricopa furono portate all’Arizona Veterans Memorial Coliseum, un ex palazzetto del basket nel centro di Phoenix.

Un tribunale statale aveva ordinato alla contea di ottemperare all’ingiunzione emessa dal Senato statale, a controllo repubblicano, che intendeva ricontrollare lo spoglio dell’elezione presidenziale, nonostante non ci fossero prove di alcun problema con i voti. L’azienda incaricata di gestire il progetto era una piccola società di Sarasota, in Florida, chiamata Cyber Ninjas, priva di alcuna esperienza in campo amministrativo o nella revisione elettorale. Il suo presidente, Doug Logan, aveva diffuso le dicerie secondo cui l’elezione era stata compromessa dai brogli.

I problemi emersero fin dal principio. L’azienda dava scarse spiegazioni circa le sue procedure, compreso l’uso di lampade a raggi ultravioletti che a un certo punto gli operatori puntarono su ogni scheda. Uno dei revisori disse a un giornalista che la luce serviva a verificare l’accusa che alcune delle schede fossero state introdotte clandestinamente dall’Asia e che fosse possibile individuarle grazie alle fibre di bamboo presenti nella carta. Il progetto sarebbe dovuto durare qualche settimana, ma si trascinò nel tempo.

Il canale tv pro Trump One America News (Oan) mandava in diretta 24 ore su 24 le immagini dal palazzetto, con servizi enfatici sui controlli, come se si trattasse della nascita di un movimento nazionale che avrebbe portato alla revisione completa del risultato elettorale. La giornalista Christina Bobb, che era stata assistente legale volontaria per la campagna di Trump e che il 6 gennaio se ne era stata chiusa in una stanza di un hotel di Washington insieme all’avvocato del presidente Rudy Giuliani, usò la trasmissione per una raccolta di fondi destinati a finanziare la revisione dello spoglio.

A tre mesi dall’assedio del Campidoglio, i sostenitori di Trump potevano aggrapparsi a qualcosa. “Ci serve solo uno stato. E poi cadranno tutti come pezzi del domino”, proclamò il presidente di MyPillow, Mike Lindell, che stava spendendo milioni di soldi propri in video e manifestazioni che promuovevano false accuse sulle frodi elettorali. I leader della contea di Maricopa – quasi tutti repubblicani – facevano fatica a credere ai propri occhi. L’elezione era stata controllata più e più volte, eppure adesso le loro schede si trovavano nelle mani di un gruppo di dilettanti non imparziali.

Il 17 maggio, Stephan Richer, che era rimasto in silenzio quasi tutto il tempo perché non era tra i funzionari di ruolo nel 2020, in preda all’angoscia si unì ai sei altri funzionari eletti della contea per firmare una durissima lettera in cui descrivevano il procedimento come una “farsa” e “una scena che ci sta danneggiando tutti”. Due giorni dopo, Richer ricevette sul telefono un messaggio allarmante.  “Richer, lo sai, prima o poi dovrai presentarti davanti a Dio. Tu canaglia pezzo di m… Perché c...o hai tradito il tuo paese? Lo sai benissimo che quei figli di p…. hanno fatto i brogli. Non so chi ti paga, ma i soldi ti serviranno per bruciare all’inferno dove stai andando, brutto pezzo di m…”. I riflettori erano sempre più forti sul riconteggio dell’Arizona, anche grazie all’ex presidente.

Trump era rimasto folgorato alla vista degli operatori con le loro magliette colorate che disimballavano le schede e le sparpagliavano su dei vassoi di plastica girevoli. Cominciò a consultarsi in privato con Lindell e Bobb. “In Arizona stiamo assistendo a un’organizzazione incredibile e integerrima per far fronte alle Elezioni Presidenziali Fraudolente del 2020”, disse Trump in una delle due dichiarazioni rese durante un solo giorno di riconteggio alla fine di aprile. “Sono stati i primi a vedere che è un’Elezione Truccata!”.

Durante quella primavera, nel suo club privato di Mar-a-Lago in Florida, l’ex presidente faceva delle gran tirate con i suoi ospiti su quello che stava succedendo in Arizona, ripetendo le sue lamentele sulle elezioni del 2020 davanti a piatti di bistecche e aragoste. “Sei tu il nostro presidente!”, gridò un uomo passando dall’atrio, a fine aprile. “Grazie”, rispose Trump.

Durante una cena, Trump si avvicinò a un tavolo e i commensali cercarono di fare due chiacchiere. Ma lui non era interessato, invece cominciò a raccontare nei minimi dettagli quelli che lui credeva fossero stati i brogli in stati come la Georgia o l’Arizona.  “Tutti parlano delle elezioni”, disse loro. “E’ la storia più importante del pianeta”.

Un’altra sera, un suo amico stava cercando di coinvolgere Trump nella discussione su un progetto per una futura biblioteca presidenziale. “Era del tutto disinteressato”, ha raccontato questa persona. “Si lanciò immediatamente nella questione di come l’elezione gli fosse stata rubata”.

Mentre era in corso la revisione delle schede in Arizona, Trump cominciò a discutere di come assicurarsi i riconteggi in altri stati, come la Pennsylvania, il Michigan, il Wisconsin, il New Hampshire e la Georgia. Disse agli amici che forse sarebbe tornato alla Casa Bianca.

Dagli altri stati cominciarono ad arrivare repubblicani in pellegrinaggio a Phoenix per vedere le operazioni di riconteggio nel palazzetto. Nonostante si trattasse di parlamentari di secondo piano o di candidati, la tv Oan e altri media pro Trump li descrivevano come delle delegazioni ufficiali, dando ai propri spettatori l’impressione che questi stati avrebbero presto seguito la linea dell’Arizona.

La presidente del Senato Fann in pubblico ripeteva che, a prescindere dagli esiti del riconteggio, la vittoria di Biden nello stato non sarebbe stata annullata. Ma non fece molto per cercare di raffreddare gli entusiasmi di quelli che erano convinti del contrario, compresi i membri del suo stesso caucus e lo stesso Trump.

Quando ricevette un’e-mail da un elettore che protestava perché il suo rappresentante nel collegio si rifiutava di dire che il riconteggio avrebbe provocato l’annullamento della ratifica della vittoria di Biden, Fann rispose in modo criptico: “Il nostro unico obiettivo è cercare di far finire questa revisione prima che cerchino di bloccarci di nuovo. A volte, quando vuoi ottenere qualcosa il miele funziona meglio dell’aceto. L’aceto arriverà alla fine”.

Il senatore statale del Michigan Ed McBroom, un politico conservatore profondamente religioso, è noto tra i suoi colleghi come “il re dell’Upper Peninsula” – un riferimento alla sua popolarità in queste remota regione dello stato.

A giugno, i funzionari della contea di Houghton si rivolsero a questo allevatore di quarta generazione in cerca d’aiuto. Speravano di mettere a tacere le voci che ancora giravano nella comunità circa macchinari elettorali manomessi e voti in favore di Trump dati invece a Biden. 

Un film prodotto da Lindell, intitolato “Prova assoluta” e trasmesso da Oan, aveva messo in agitazione gli abitanti della zona con la falsa accusa che alcuni malintenzionati avessero usato sistemi di manomissione in remoto per spostare in favore di Biden 1.143 dei circa 18.500 voti espressi nella contea di Houghton. Il film sosteneva che era tutto parte di un più vasto complotto per alterare le elezioni.

Il 15 giugno, McBroom prese parte a una riunione via Zoom dei commissari di contea e cercò di placare le loro ansie. Disse che le accuse erano “inventate”. “Ciò che continuano a ipotizzare è semplicemente impossibile”, disse. Alcuni cittadini non erano soddisfatti e chiedevano una revisione dei risultati. “Che male può fare? Risolviamo questa cosa”, disse qualcuno provocando un po’ di applausi.

Otto giorni dopo, la commissione di vigilanza del Senato pubblicò una relazione sulle elezioni – un’analisi impietosa delle accuse infondate promosse da Trump e dai suoi alleati. La conclusione: i cittadini dovrebbero avere fiducia nei risultati delle elezioni in Michigan. 

La reazione fu immediata. Alcune commissioni repubblicane locali approvarono delle risoluzioni di censura di McBroom. Un attivista lo definì “un servitore di Satana”. Trump lo attaccò di persona, con una dichiarazione in cui sosteneva che la relazione era un’operazione di occultamento e che McBroom era “in realtà un democratico”. L’ex presidente disse che gli elettori del Michigan “non avrebbero appoggiato dei senatori repubblicani che restavano inerti di fronte al delitto del secolo”. McBroom ricevette moltissime telefonate infuriate, email e messaggini, alcuni dei quali si auguravano che finisse “appeso” o “sparato”.


Scoraggiato, McBroom provò a vedere le cose in prospettiva. La mia reputazione e la mia immagine sono nelle mani di Dio, si disse. Nel Partito repubblicano non c’era più posto per chi diceva la verità. Né per chi riteneva gli assalitori qualcosa di diverso da dei patrioti.

I fedelissimi di Trump avevano scalzato dalla carica di leader della Camera la deputata del Wyoming Liz Cheney, che a più riprese aveva denunciato le “bugie distruttive” dell’ex presidente. I parlamentari repubblicani avevano silurato un tentativo di formare una commissione bipartisan che avrebbe esaminato le cause e gli errori che avevano portato all’assalto del 6 gennaio. E il 15 giugno, 21 deputati repubblicani votarono contro un provvedimento che avrebbe assegnato la medaglia d’oro del Congresso agli agenti della polizia del Campidoglio che avevano respinto i rivoltosi.

Qualche giorno dopo, una folla rabbiosa di repubblicani contestò Mike Pence al grido di “Traditore!” durante un congresso della Faith & Freedom Coalition, riecheggiando le urla inquietanti che si erano sentite dentro il Campidoglio il 6 gennaio.

Cheney – figura simbolo dei conservatori e figlia di un vicepresidente repubblicano – sfidò i vertici del partito e accettò di lavorare con i democratici in una commissione di inchiesta sul 6 gennaio. Una sera d’estate, uscendo dall’aula della Camera sulla scalinata del Campidoglio fu accolta da uno dei suoi nuovi e improbabili alleati, il deputato democratico del Maryland Jamie Raskin, suo collega in commissione.

Lì vicino c’era un gruppo di studenti in visita dalla Miami University dell’Ohio. Una giovane donna si avvicinò a Cheney. “Non credo di essere d’accordo con lei su molte cose”, disse alla deputata, ma poi aggiunse che avrebbe voluto unirsi alla sua nuova causa. “Come posso battermi al suo fianco?”. “Ogni singolo americano ha delle responsabilità”, le rispose Cheney. “Le nostre istituzioni sono molto fragili. Ciascuno di noi ha un dovere”. Ci furono conseguenze particolarmente pesanti per quella manciata di funzionari statali repubblicani che avevano voluto difendere i risultati delle elezioni, come Brad Raffensperger, il segretario di stato della Georgia.

Qualche giorno prima dell’inizio della convention repubblicana ai primi di giugno, l’assistente di Raffensperger, Gabriel Sterling, incontrò un’attivista pro Trump a un evento dei giovani repubblicani ad Atlanta. La donna gli chiese se lui e il suo capo intendessero andare sulla costa per partecipare alla riunione del partito. No, rispose Sterling. Forse è meglio così, ribatté lei piccata. Se si fossero presentati, lei ed altri li avrebbero probabilmente presi a sassate.

Alla convention sulla Jekyll Island, la folla accolse con calore due sfidanti di Raffensperger. Il deputato della Georgia Jody Hice, che aveva votato contro la ratifica del collegio elettorale e che era in contatto continuo con Trump, si presentò con la spilletta a forma di stivale “Boot Brad” (prendi a calci Brad, ovvero Raffensperger, ndt). E David Belle Isle, ex sindaco di Alpharetta, distribuì dei volantini con l’immagine di Raffensperger raffigurato con corna demoniache.  “Quel che è accaduto in Georgia ha avuto un impatto enorme sul resto della nazione”, disse Hice alla convention, assecondando la falsa affermazione che Trump avesse vinto lo stato. “Stiamo combattendo la battaglia della vita per questo paese. E in questa battaglia noi siamo l’avanguardia”. 

I delegati votarono contro Raffensperger. E Brian Kemp, il governatore repubblicano che aveva formalmente certificato la vittoria di Biden, fu accolto da fischi così forti che in certi punti della vasta sala congressi era impossibile sentire cosa stesse dicendo.

Poco importava che qualche mese prima Kemp avesse firmato una legge elettorale di ampia portata, come risposta alle richieste dei sostenitori di Trump. La legge non era dura quanto il vicegovernatore Duncan e altri avevano temuto, ma toglieva alcuni poteri al segretario di stato e dava maggiore influenza sull’amministrazione delle elezioni locali al comitato elettorale e ai parlamentari.

Altri stati a guida repubblicana si affrettarono ad approvare le proprie leggi elettorali, con la scusa che bisognasse ricostruire la fiducia nelle elezioni. I repubblicani della Florida misero a punto una delle leggi di più ampia portata, che limitava drasticamente il voto via posta, nonostante il Partito repubblicano avesse rivoluzionato l’uso di quel tipo di metodo di votazione nello stato. Il Texas approvò dei provvedimenti che aumentavano le pene per i reati dei funzionari elettorali e limitavano i metodi di voto usati nel 2020 a Houston, dove si era verificata un’alta affluenza di elettori neri.

Molti parlamenti statali approvarono leggi che attribuivano poteri nuovi a soggetti di parte, mettendoli in grado di contestare gli spogli e rendendo più facile la possibilità per il partito al potere di rimpiazzare funzionari incaricati delle elezioni locali.

A fine settembre 2021, i parlamentari repubblicani in tutto il paese avevano approvato oltre 400 provvedimenti restrittivi dell’accesso al voto – e avrebbero fatto passare 33 leggi in 19 stati.

I repubblicani che si candidavano a varie cariche ripetevano la menzogna che Trump avesse vinto le elezioni del 2020. Secondo un’analisi del Washington Post, entro la fine dell’estate dopo l’assalto, quasi un terzo dei 390 candidati repubblicani che avevano espresso l’intenzione di correre per cariche a livello statale aveva pubblicamente sostenuto la necessità di un riconteggio di parte, aveva sminuito la gravità dell’attacco del 6 gennaio, oppure messo in dubbio direttamente la vittoria di Biden. Tra di loro c’erano dieci candidati alla carica di segretario di stato, una posizione di grande influenza sulle elezioni in molti stati. Era un segno chiaro del fatto che Trump avesse in pugno il Partito repubblicano.

A fine luglio, in un teatro dell’Arizona a Phoenix, la paesaggista californiana Melissa Marsh ascoltava estasiata Trump difendere il riconteggio ancora in corso nello stato. “I risultati saranno scandalosi”, disse Trump promettendo poi che la revisione dello spoglio avrebbe provocato azioni analoghe anche altrove. “Siamo di fronte a una rivoluzione in questo paese”, aggiunse.

Era dalla notte delle elezioni che la sessantenne Marsh seguiva le accuse di brogli. Quella notte aveva sentito la falsa notizia che in diversi stati in cui Trump era in vantaggio lo spoglio era stato interrotto alle 10 di sera. (segue nell’inserto VI) Cominciò a non fidarsi più di Fox News la sera dopo, quando il canale assegnò l’Arizona a Biden. Ora si affidava a Telegram e ai canali social dell’azienda di Lindell, MyPillow, per avere informazioni sulle elezioni.

“Mike Lindell ha dimostrato con analisti esperti che le elezioni sono state truccate, che le schede non coincidono”, disse. “I media sono falsi. Mentono”.

L’evento aveva riempito completamente il teatro da cinquemila posti. L’organizzatore era Turning Point Action, un gruppo conservatore diretto dall’alleato di Trump Charlie Kirk, che il 6 gennaio aveva predisposto sette pullman per portare manifestanti a Washington, tramite il suo progetto “Studenti per Trump”.

Molti fra il pubblico nutrivano dubbi sul fatto che quanto era accaduto a Washington potesse essere definito come un attacco a uno dei rami del potere del governo americano.

Chris Park, che si occupava di marketing a Scottsdale,  continuava a ripetere l’accusa infondata che fossero stati degli informatori dell’Fbi a incitare la gente a entrare in Campidoglio. “Non è un’insurrezione”, disse. “Non ci sono state delle vere violenze, a parte una persona cui hanno sparato, e a spararle sono stati quelli che dovevano essere proprio lì”. Nella terza fila di poltrone del teatro era seduta Michelle Witthoeft, la madre di Ashli Babbitt. Un agente della polizia del Campidoglio aveva sparato a Babbitt mentre cercava di introdursi nella sala della presidenza attraverso un pannello di vetro infranto, a pochi metri dall’aula della Camera in cui era ancora in corso l’evacuazione dei parlamentari.

Qualche settimana prima del comizio di Phoenix, Trump aveva telefonato a Witthoeft  e lei gli aveva chiesto di parlare di più della morte di sua figlia. Lui seguì il consiglio e qualche giorno dopo andò a Fox News a dire che Babbitt era una “donna innocente, meravigliosa, incredibile, un soldato”.

La polizia del Campidoglio accertò formalmente che l’agente che aveva ucciso Babbitt probabilmente aveva, con quell’azione, salvato molte vite umane. Ma i repubblicani seguirono l’imbeccata di Trump. Quella sera a Phoenix il deputato dell’Arizona Paul A. Gosar, che aveva già dichiarato durante un’audizione in Congresso che Babbitt era stata “giustiziata”, fece partire un’ovazione crescente per Witthoeft. “Ashli! Ahsli! Ashli!”, intonava in coro la folla. Fu un momento surreale e agrodolce per Witthoeft. “C’era tanto amore per Ashli”, ha poi detto.

Qualche giorno dopo, il funzionario elettorale della Georgia Sterling ricevette una lettera nella cassetta postale. Il foglio all’interno era scritto con una calligrafia tonda e briosa, ma il contenuto era tutt’altro che allegro: “Hai svenduto lo stato della Georgia e il tuo paese. Sei colpevole di frode elettorale. Devi confessare il tuo ruolo in questa frode o sarai processato per tradimento. Finché non dirai la verità né tu né la tua famiglia potrete camminare per strada in pace!”. Sterling non era solo.

Per mesi nella contea di Maricopa si erano susseguiti attacchi feroci e volgari. Le email e le telefonate accusavano di tradimento i funzionari della contea e ne chiedevano l’esecuzione per fucilazione o impiccagione. Alcuni dei messaggi erano conditi di insulti antisemiti: “Sappiamo tutti cosa stai nascondendo, stupido figlio di puttana! Spero che prima o poi i patrioti dell’Arizona ti becchino in un vicolo buio perché meriti quello che ti sta per capitare… E spero che ci sarà un video, quando succede, così potrò vederti, inutile pezzo di merda, piangere e implorare che salvino la tua miserabile vita da parassita! Sei la vergogna di questo paese e spero che ti venga presto un infarto, stronzo traditore! Vaffanculo Tu e tutta la tua famiglia di traditori. Nel mondo ideale, i traditori li appendono per il loro piccolo collo scheletrico finché non muoiono!”.

Il Washington Post ha scoperto che dal 6 gennaio ci sono stati funzionari pubblici in almeno 17 stati che hanno ricevuto centinaia di minacce alla propria incolumità o alla propria vita. La maggior parte si trovava nei sei stati dove Trump aveva concentrato le sue recriminazioni contro i risultati elettorali. Dalle testimonianze raccolte emerge che le email e le telefonate di minaccia aumentavano all’improvviso sempre in coincidenza con nuove sparate dell’ex presidente. “Il tempo sta scadendo, Richard. Veniamo a prendere te e tutti i figli di puttana che hanno rubato queste elezioni, veniamo con il nostro secondo emendamento, che vadano all’inferno con le loro denunce. Ti beccherai il piombo, tu str…o nemico comunista del ca..o. Ti beccherai il piombo”.

Quando Trump attaccò McBroom, lo stesso fecero i suoi sostenitori. Il mese dopo, l’ex presidente prese di mira un senatore statale repubblicano dell’Arizona che si era opposto alla revisione delle schede nello stato. Trump disse che Paul Boyer era “solo una fonte di guai”. Boyer ricevette così tante minacce che ebbe paura per la sicurezza della sua famiglia e annullò un viaggio fuori dall’Arizona per non lasciarla da sola. I funzionari a Washington cominciarono ad allarmarsi per il brusio che cresceva, e che ricordava i toni preoccupanti emersi nei giorni subito precedenti il 6 gennaio.

Il 6 agosto, il dipartimento per la Sicurezza nazionale diramò un comunicato formale di allerta per funzionari locali e statali, avvertendoli di una “crescente ma modesta quantità di individui che invocano la violenza come risposta alle infondate accuse di frode relative alle elezioni del 2020 e a un presunto ‘reinsediamento’ dell’ex presidente Trump”.

I funzionari locali non avevano bisogno che fosse Washington a dir loro cosa stesse accadendo. Era chiaro ogni giorno, quando aprivano le email o ascoltavano la segreteria telefonica.

Ai primi di agosto, in previsione di un’elezione municipale che di norma sarebbe stata tranquilla, Jennifer Kelly, l’ufficiale del registro della contea di Houghton, in Michigan, si chiese cosa avrebbero potuto fare per rassicurare gli elettori circa il fatto che le loro schede sarebbero state al sicuro. Decise di prendere delle precauzioni eccezionali: diede indicazione al suo staff di registrare i numeri di serie delle macchine elettorali, documentare la rottura dei sigilli dei tabulatori e appuntare per iscritto che nessuno aveva manomesso le attrezzature. Kelly temeva che, senza queste misure precauzionali, l’opinione pubblica avrebbe continuato a metter in dubbio i risultati.

L’elezione ebbe una bassa affluenza e tutto andò liscio. Ma i cittadini continuarono a bersagliarla di domande ufficiali circa la sicurezza delle macchine elettorali e di reclami – già smentiti – circa i pennarelli che avrebbero reso illeggibili le schede, un’accusa che aveva messo radici per la prima volta in Arizona. Sono passati mesi dalle elezioni del 2020, e “siamo ancora allo stesso punto”, ha detto Kelly. “Ci sono ancora tutti questi dubbi, tante domande, tante insinuazioni sul fatto che qualcuno sia stato disonesto”.

Era il primo sabato d’agosto e il capitano Carneysha Mendoza, che era stata promossa alla guida dei reparti antisommossa della polizia del Campidoglio, fu chiamata al lavoro per un turno non previsto. Le forze dell’ordine avevano ricevuto informazioni di intelligence secondo cui un gruppo di persone avrebbe cercato di introdursi nell’edificio.

Nel suo ufficio, Mendoza ascoltava la radio e scriveva al computer. Sulle pareti dietro di lei c’erano delle lavagne su cui erano segnati i progressi del suo team nel completare alcuni degli obiettivi che la polizia del Campidoglio aveva individuato come prioritari sulla scia dell’attacco di gennaio. Tra gli obiettivi segnati come raggiunti: buttare via gli scudi vecchi. Esercitazioni di allenamento comuni. Redigere un nuovo regolamento sull’uso dello spray urticante.

Appeso a una delle lavagne c’era un appunto buttato giù da Mendoza una sera tardi di qualche giorno prima. C’era scritto: “La tragedia non è la fine della nostra storia”. Era un promemoria lasciato lì, non solo per lei ma per tutti i suoi colleghi. Però sapeva che molti di loro stavano facendo ancora fatica, non riuscivano a staccare completamente neanche quando erano a casa con le loro famiglie.

Quel giorno l’allarme si rivelò poi falso. Ma Mendoza sapeva che presto sarebbe successo di nuovo, per davvero. “Non c’è più la normalità”, ha detto. “La normalità è finita. Ormai è così”. La narrazione delle elezioni, dura e a tratti violenta, continuò e risucchiò persino dei sostenitori di Trump che stavano rischiando il carcere per le loro azioni. 

A metà agosto, un ufficiale giudiziario trovò Douglas Jensen solo nel suo garage di Des Moines (Iowa), mentre guardava sull’iPhone il sito Rumble, che trasmette video in diretta ed è diventato il rifugio di molti personaggi di estrema destra che si lamentano di essere stati censurati da Big Tech.

Il 6 gennaio Jansen era stato ripreso in un video mentre inseguiva un agente della polizia del Campidoglio. Era stato rilasciato dal carcere appena il mese prima. Il suo avvocato aveva sostenuto che lui si era completamente dissociato dalle teorie complottiste e che aveva ammesso di “aver abboccato a una montagna di bugie”. Tra le condizioni del rilascio, in attesa del giudizio, c’era il divieto di andare su Internet. Ma Jensen ammise di aver passato due giorni a guardare i video di una conferenza sulle presunti frodi delle elezioni 2020, mandati in diretta dal canale social di MyPillow, l’azienda di Lindell. Finì di nuovo in carcere.

Paul Hodgkins aveva accettato di dichiararsi colpevole di ostruzione del processo elettorale – ed era così diventato il primo rivoltoso ad essere condannato per un reato legato alle azioni del 6 gennaio. Al momento della sentenza si era appellato alla clemenza della corte. Il giudice distrettuale federale Randolph D. Moss aveva detto che l’aver portato una bandiera di Trump fin dentro il Senato equivaleva a “dichiarare fedeltà a un singolo individuo rispetto all’intera nazione”.  “Con quell’atto, ha rappresentato la minaccia alla democrazia alla quale tutti quel giorno stavamo assistendo”.

Man mano che si rendeva conto di cosa volesse davvero dire passare otto mesi dietro le sbarre, Hodgkins si agitava sempre di più. Aveva perso il lavoro di gruista a causa della condanna. Venne a sapere che, siccome la sentenza era inferiore a un anno, non avrebbe potuto ottenere delle uscite per buona condotta. Un amico proveniente anche lui dalla campagna di Trump mise su un sito per raccogliere fondi per lui. “Paul è un vero patriota”, si leggeva sul sito. “E’ stato condannato ingiustamente a 8 mesi per essere entrato per 15 minuti nel Campidoglio ed essersi scattato qualche selfie”.

Qualche settimana prima di consegnarsi, Hodgkins assunse un nuovo avvocato che sui social aveva falsamente affermato che a istigare il caos in Campidoglio erano stati gli antifa e i democratici. In tribunale, l’avvocato – che esercitava la professione da meno di un anno – espose le sue argomentazioni per una richiesta d’appello e sostenne che la firma di Hodgkins sul patteggiamento era stata falsificata. L’accusa fu duramente respinta da Moss, che fece notare come Hodgkins avesse confermato sotto giuramento di aver firmato. Nel giro di pochi giorni Hodgkins rinunciò all’idea di ricorrere in appello.

Una domenica di settembre si fece tagliare una trentina di centimetri dei suoi lunghi capelli, andò in chiesa e si preparò a presentarsi in carcere il giorno dopo. Eppure continuava a non incolpare l’ex presidente. “Ho fatto da me le mie scelte insensate”, disse. Se Trump si fosse presentato di nuovo lui lo avrebbe votato ancora. Forse un giorno Trump lo avrebbe persino graziato.

Entro l’autunno, le persone arrestate e incriminate per l’attacco al Campidoglio erano arrivate a 650, e le forze dell’ordine dissero di aspettarsi centinaia di altri arresti. I funzionari del dipartimento di Giustizia, che inizialmente avevano valutato in circa 800 i possibili sospetti di incriminazione, aveva ormai calcolato che tra le 2.000 e le 2.500 persone erano entrate nel Campidoglio il 6 gennaio.

Non era ancora stato trovato il responsabile delle bombe artigianali piazzate fuori dagli uffici dei Comitati democratico e repubblicano. Gli agenti per due volte avevano creduto di aver identificato un sospetto. Ma dopo ulteriori indagini si accertò che quelle persone non c’entravano.

Ma molti repubblicani espressero scarso interesse nel portare nelle aule di giustizia gli eventi del 6 gennaio. A marzo oltre la metà di quelle incriminazioni erano molto significative. Arrivati a settembre il numero si era ridotto a un quarto. 

I capi del Partito repubblicano sembravano anche impazienti di andare oltre. Lindsey Graham, che il 6 gennaio aveva rimproverato il presidente, a settembre disse a un gruppo di repubblicani del Michigan che sperava in una ricandidatura di Trump. L’ex presidente cominciò a interrogare i candidati che venivano da lui a chiedergli un sostegno in campagna elettorale. Prima di dare il proprio assenso, per prima cosa voleva sentirsi dire che anche loro credevano che l’elezione gli fosse stata rubata. Si spese per coloro che sfidavano Cheney e altri repubblicani che avevano votato in favore dell’impeachment – e intensificò gli sforzi per imporre la revisione del voto. Entro la fine dell’estate aveva chiamato i leader del partito in una decine di stati, facendo personalmente pressione su coloro che volevano interrompere i tentativi di contestazione del voto del 2020.

Il senatore statale pro tempore della Pennsylvania Jake Corman – un repubblicano che inizialmente si era opposto alla revisione – a fine agosto annunciò la convocazione di una serie di udienze sulle elezioni, che in quello stato Biden aveva vinto con oltre 80 mila voti in più rispetto a Trump. Cercò di rassicurare gli elettori di Trump che lui aveva il sostegno dell’ex presidente, raccontando alla presentatrice Wendy Bell di aver parlato di questo direttamente con l’ex presidente. “Penso che sia d’accordo con la direzione che abbiamo preso”, disse Corman. Nel giro di qualche settimana, una commissione parlamentare dello stato cominciò a inviare ingiunzioni per ottenere una grande varietà di dati e informazioni personali sugli elettori dello stato.

Anche in Wisconsin, dove Biden aveva superato Trump di 20 mila voti, Robin Vos, presidente repubblicano dell’assemblea, cominciava ad avvertire le pressioni. Approvò una revisione dei risultati, e ingaggiò persino dei poliziotti in pensione per indagare sulle accuse di illegalità. Ma Trump disse che non stava facendo abbastanza e accusò Vos di “darsi da fare per occultare la corruzione dell’elezione”.

Il 23 agosto, Vos accompagnò Trump con un volo privato dal golf club dell’ex presidente in New Jersey a un comizio in Alabama. In quell’occasione cercò di spiegarsi. Durante il volo, Trump elencò a Vos tutti i problemi che gli erano giunti all’orecchio circa il voto del Wisconsin nel 2020. Il presidente dell’assemblea cercò di rassicurarlo: si stavano impegnando per risolvere il problema. Sarebbero rimasti in contatto.

Vos aveva incaricato Michael Gableman, un ex giudice della Corte Suprema del Wisconsin, di condurre un’indagine. Nell’ambito di essa, Gableman partecipò a un forum sulle frodi elettorali organizzato dalla società di Lindell, MyPillow. E cominciò subito ad alzare il tiro. Inviò ingiunzioni ai segretari di registro locali che avevano rifiutato di cooperare con la sua investigazione.

L’onere della prova che l’elezione non fosse stata alterata, disse Gableman, sarebbe ricaduto sui funzionari elettorali.

Nella pausa dei lavori del Congresso ai primi di settembre, Salud Carbajal vide dall’auto un comizio politico a Santa Barbara. Carbajal, il deputato democratico che era tornato in volo nel suo collegio sulla costa centrale della California il giorno dopo le rivolte, circondato da rabbiosi sostenitori di Trump, si fermò per dare un’occhiata. 

L’ospite d’onore era Larry Elder, il candidato repubblicano favorito per scalzare il governatore democratico Gavin Newsom nelle imminenti elezioni di ricusazione (una procedura solo californiana che impone un’elezione di conferma o ricusazione del politico in carica nel caso una petizione popolare sia firmata da almeno il 12 per cento del totale degli elettori dell’ultima elezione, ndt), previste per la settimana successiva. Tra la folla, i sostenitori di Elder con in mano le bandiere di Trump e i cappellini “Make America Great Again” stavano già cominciando a parlare di possibili frodi. Carbajal si rese conto con sgomento che se Elder avesse perso, i repubblicani avrebbero detto che il voto era stato truccato. Di nuovo.

Qualche settimana dopo, Clint Hickman era nell’azienda agricola di famiglia. Chiuse la porta del suo ufficio, accese il computer e si preparò ad ascoltare i risultati della revisione dello spoglio in Arizona, che si era finalmente conclusa.

Un riconteggio manuale di quasi 2,1 milioni di schede aveva dato un esito praticamente identico a quello del risultato certificato: Biden aveva vinto la contea di oltre 45 mila voti.

Ma i consulenti ingaggiati per l’operazione di riconteggio caricarono la loro presentazione alla presidente del Senato, Karen Fann, di complicate teorie secondo cui la contea aveva forse ammesso alcune schede in modo improprio o aveva cancellato dei dati. Non riuscirono a fornire alcuna prova di frodi o irregolarità ma nonostante ciò raccomandarono ulteriori indagini – tra cui un’inchiesta penale del ministro della Giustizia dell’Arizona. Il sollievo di Hickman fu sovrastato dalla frustrazione e dallo sfinimento. “Questa cosa andrà avanti un bel po’”, disse fra sé sospirando.

Mark Finchman, il candidato segretario di stato dell’Arizona sostenuto da Trump (una carica che sovrintende alle elezioni nello stato), invocò degli arresti e chiese che la ratifica della vittoria di Biden fosse revocata.

Trump intervenne sul tema il giorno dopo, durante un comizio a Perry, in Georgia. “Abbiamo vinto la verifica giudiziaria in Arizona”, disse alle migliaia di suoi fan urlanti, “a un livello che voi non potete neanche immaginare”.

L’ex presidente diede voce alle peggiori paure dei suoi detrattori: che la sua ossessione per quel che era accaduto nel passato gli avrebbe reso impossibile l’idea di perdere di nuovo. “Ho dei grandi, grandi amici che davvero hanno a cuore il meglio per noi”, disse Trump. “Mi dicono: sir, è in testa in tutti i sondaggi con numeri mai visti prima. Pensi al futuro, non al passato”, disse ancora alla folla. “E io rispondo: se non pensiamo al passato, non vinceremo di nuovo in futuro, perché è tutto truccato. Tutto truccato”. 

Dopo aver detto di prevedere una vittoria repubblicana nelle elezioni di metà mandato del 2022, aggiunse che ci sarebbe stata “un’ancora più gloriosa vittoria nel novembre 2024”.

Quel giorno a Phoenix, oltre cento sostenitori di Trump si radunarono nel parco del Parlamento statale per protestare contro l’incriminazione dei rivoltosi del 6 gennaio. Un gruppetto di persone vestite con i caratteristici colori neri e gialli dei Proud Boys si guadagnò il plauso di un politico repubblicano che stava parlando al comizio.

Dalla folla si levavano senza sosta le parole d’ordine di Trump. Qualcuno diceva che i rivoltosi del 6 gennaio erano dei patrioti. Il sistema era truccato. I politici al potere corrotti. Il paese stava cadendo a pezzi e non ci si poteva più fidare delle elezioni per sistemare le cose.

Suonava tutto così familiare: l’anno prima, i sostenitori di Trump avevano espresso questi stessi sentimenti di rabbia nel periodo precedente al giorno delle elezioni. Tutto quel che era accaduto dopo – le false accuse sui voti, i tentativi del presidente di ribaltare i risultati, un violento assalto al Campidoglio – non aveva fatto altro che acuire le convinzioni di alcune delle persone che erano radunate in quel parco quel giorno. Pensavano di avere ormai ben poca scelta. “Non so come potremmo sistemare le cose, se non con un bagno di sangue”, disse Wade Damms, un operaio 47enne di Snowflake, Arizona. “Io sono pronto a farne parte”, continuò. “Mi serve solo qualcuno che mi guidi”.

Hannah Allam, Devlin Barrett, Aaron C. Davis, Josh Dawsey, Amy Gardner, Shane Harris, Rosalind S. Helderman, Paul Kane, Dan Lamothe, Carol D. Leonnig, Nick Miroff, Ellen Nakashima, Ashley Parker, Beth Reinhard, Philip Rucker. Craig Timberg

traduzione di Raffaella Menichini  e di Alessia Manfredi Copyright Washington Post (4 - fine)  

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