Chi conosce il grande romanzo di Tomasi di Lampedusa, ma anche quel che hanno scritto della loro terra autori come Sciascia, Bufalino e tanti altri, non si stupirà molto di quello che troverà in questo articolo, che, nonostante le apparenze, vuole essere la controversa dichiarazione d’amore di un uomo del nord per questa terra che è diventata un po’ anche la sua seconda casa. Ho visitato per la prima volta la Sicilia quando ero molto giovane e pieno di stravaganti desideri. L’ho fatto perché spinto e accompagnato più da suggestioni poetiche e da confuse aspettative, avvolte in un’aura quasi mitica, che da intenzioni di viaggio turistico. Volevo trovare, da qualche parte laggiù, il “correlativo oggettivo” di quella vibrazione tutta intellettuale che avevo provato leggendo una poesia di Quasimodo, Vento a Tindari; volevo trovare qualche traccia delle radici di quella filosofia di cui allora cominciavo a balbettare le prime parole; volevo vedere il Caos da cui era nato lo spirito più originale del Novecento italiano; volevo che i miei sensi si riempissero di quella natura forte di cui avevo sentito solo parlare.
Ed è andata così come mi aspettavo, non sono rimasto deluso; anzi, quel viaggio ha alimentato in me forme del sentire, e direi anche del pensare, che probabilmente sarebbero rimaste inespresse senza quella esperienza. Ho trovato davvero l’antica mitezza del vento “sull’acque dell’isole dolci del dio”; ho visto la potenza di quel pensiero tutt’altro che astratto che aveva accompagnato l’edificazione di templi e teatri di incomparabile bellezza; ho sentito per la prima e ultima volta ciò che rimane di un mito sfiorando le canne di papiro sulle piccole sponde di una fonte che fu una ninfa; sono rimasto quasi letteralmente “ustionato” dalla prossimità a quella oscura e incandescente divinità che è l’Etna (“È come Circe. Se un uomo non è molto forte, gli strappa l’anima e lo lascia non bestia ma creatura elementare, intelligente e senz’anima” – scriveva D. H. Lawrence); ho reso omaggio al Maestro delle Maschere. Avevo visto e sentito tutto questo e molto altro ancora. Da allora ho portato con me la convinzione di essere riuscito ad entrare in contatto più volte con il “genio del luogo”, anche soltanto per un sentiero di campagna, tra muretti a secco e pareti di fichi d’India, nel tempo fermo delle ore più calde e immobili del giorno. E poi, finalmente, avevo visto il mare, che mi sembrava quello vero, non quello da stabilimento balneare a cui ero abituato nel Veneto.
Certo, avevo visto anche cose “strane”, e rovine meno antiche e meno gloriose dei templi di Agrigento, di Selinunte, di Segesta, del teatro di Siracusa. A Palermo, dopo aver visto meraviglie architettoniche come la Zisa, il Palazzo dei Normanni, la Martorana, nel quartiere Kalsa mi sono imbattuto in case rimaste sventrate dal tempo dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale, palazzi di cui restavano solo bianche e sporche scale che salivano verso il nulla, greggi che pascolavano in piazze circondate da case che sembravano giganteschi denti cariati, dove si intravedevano donne stendere i panni ad asciugare al limite del vuoto, e che cantavano nenie in una lingua a me incomprensibile. Ho registrato anche questo nella mia memoria, ma per molto tempo queste cose “strane” sono rimaste rubricate sotto la voce “pittoresco”.
Dopo quella indimenticabile prima volta sono tornato in Sicilia a distanza di molti anni, ma non si è più ripetuta la magia di quell’esperienza originaria. Sarà perché non ero più un ragazzo pieno di stravaganti aspettative e i desideri dell’uomo maturo erano diventati altri, sarà perché certe rivelazioni hanno un unico tempo e non possono essere replicate o integrate se non con una volontà d’interpretazione che inevitabilmente le trasforma in qualcosa d’altro, pallide copie di un’unica impronta primaria, fatto sta che non sono più riuscito a farmi abbracciare come allora dal fascino dell’isola. E ho fatto anch’io il turista.
Negli ultimi anni, però, c’è stato un evento che ha cambiato ancora una volta il mio rapporto con l’isola: ho sposato una figlia di questa terra e da allora tutte le volte che torno in Sicilia inevitabilmente la vedo anche alla luce della mia nuova condizione. Per essere chiari, vivendoci più a lungo, e non più da “viaggiatore incantato” né da semplice turista, e conoscendo meglio luoghi e persone, ho dovuto fare i conti con quegli aspetti della Sicilia che rendono contraddittori e sofferti i miei sentimenti per essa. Vi parlerò quindi di un’esperienza personale, che s’intreccia però con quello che ho letto e capito attraverso i libri dei grandi scrittori siciliani.
La cittadina d’origine di mia moglie è Gela, dove c’era una delle prime e più importanti colonie greche (i geloi sono stati i fondatori di Agrigento), dove Eschilo è andato a morire in modo poco tragico, e proverò a prenderla come esempio di ciò che in parte è la Sicilia. Qui veniamo ogni estate in un buen retiro, in campagna a due passi dal mare. C’è una grande spiaggia, in contrada Manfria, che è una lunga scimitarra di sabbia fine “colore della paglia”, come recita un’altra poesia di Quasimodo, lambita da un’acqua limpida dove immergersi è sempre una delizia.
Il mio primo impatto con Gela, però, non è stato dei più incoraggianti. Dopo un lungo viaggio in auto da Venezia, dopo aver attraversato l’Italia e infine la bella piana che da Catania si distende verso sud-ovest, alle porte dell’abitato sono stato accolto da quella specialità del luogo che è il sacchetto dell’immondizia buttato dove capita; qui sembrava quasi una presentazione, perché di questa spazzatura ce n’era una piccola montagna proprio sotto il cartello che annunciava BENVENUTI A GELA. Mia moglie, sorridendo amaramente, mi ha detto, mentre imboccavo via Venezia (ironia e destino dei nomi!): “È solo l’inizio.” Percorrendo a passo d’uomo questa arteria (a Gela il traffico è un eterno purgatorio) avevo modo di guardarmi intorno e di poter notare, quindi, la seconda specialità del luogo: brutti palazzetti e palazzotti, in buona parte non finiti ma abitati, anche se all’esterno ancora al grezzo e con l’ultimo piano abbandonato spesso a una desolante solitudine. Mi è stato spiegato poi che i gelesi hanno la tendenza a tirar su casa per tutta la famiglia, figli e nuore e generi e nipoti, in modo che tutti abbiano l’appartamento; salvo poi che i soldi finiscono, oppure le nuove famiglie che si formano se ne vanno da un’altra parte, anche perché le tradizioni da tempo sono un po’ usurate. Inoltre, qui non sembra avere molta importanza l’aspetto esteriore delle case; quel che conta è l’interno, dove la famiglia si rifugia, dove, a differenza della facciata, si cerca di arredare con cura se non con lusso. Quindi può capitare di entrare in appartamenti dove troviamo poltrone Frau, soggiorni Le Fablier e bagni in marmo, dopo essere saliti per scale ancora in cemento e senza corrimano.
I gelesi che ho conosciuto mi hanno messo al corrente anche di altre particolarità poco lusinghiere dei loro concittadini. A proposito di spazzatura, questa regina delle strade, – come si può, dicono, attivare il senso civico delle persone quando accade che un’assessora viene filmata mentre getta il suo personale sacchetto di rifiuti là dove tutti li buttano, o qualche notabile del paese posta su Instagram le foto del suo bellissimo giardino, che ha però come sfondo vecchi copertoni abbandonati sul bordo della strada? Il senso estetico sembrerebbe riguardare soltanto la ristrettissima dimensione privata, senza curarsi molto di quello che un tempo si chiamava anche “decoro urbano”. A Manfria c’è una bella torre di avvistamento del XVI secolo; vi si gode una magnifica vista sul Golfo ed è per questo che qualcuno ha pensato bene di costruire alle sue spalle un resort di lusso con piscina. Peccato, però, che la strada che porta alla struttura sia adornata da una variopinta costellazione di lerciume insacchettato, che scoraggerebbe anche il più bendisposto turista.
Mi raccontano anche, a proposito invece di quell’incubo che è il traffico e della mancanza assoluta di rispetto delle regole più elementari, di qualche vigile urbano in borghese che viaggia tranquillamente contromano su strade a senso unico. Personalmente ho assistito a scenette che inducono a porsi domande destinate a rimanere senza adeguata risposta. Per queste strade, dove i cartelli di divieto di sosta servono solo per far fare i bisogni ai cani, i pochi autobus che circolano sono costretti spesso ad aspettare che il signore che ha lasciato l’auto in doppia fila esca con calma dal bar dove ha fatto colazione; oppure capita di vedere l’auto dei carabinieri costretta, per procedere, ad invadere la corsia opposta perché la vettura davanti a loro ha appena parcheggiato di traverso e il conducente in ciabatte lancia quasi un’occhiataccia di sfida ai militari senza che questi gli dicano nulla. Il rapporto tra le istituzioni e i problemi della città si è recentemente arricchito di un evento che sarebbe solo grottesco se non fosse la spia di qualche “difficoltà” più grave. Il comune di Gela non ha trovato di meglio che conferire la cittadinanza onoraria a un piccolo turista tedesco, quale “risarcimento” per essere stato assalito da cani randagi sulla spiaggia. Il problema del randagismo qui è endemico, e invece di adottare misure efficaci si ricorre ad espedienti “retorici”, cioè nulli.
Si dirà che sono tutte soltanto piccole scandalose cose (soprattutto se confrontate con i morti ammazzati per strada nella guerra di mafia tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta), fatterelli che possono capitare in tutte le città, e che di fronte ai veri problemi della Sicilia (la mafia, appunto, la corruzione, il malgoverno, ecc.) vanno riportati alla loro giusta dimensione di cronaca locale. È vero, ma qui sembra che non si tratti soltanto di emergenze o di episodi; i miei amici gelesi mi dicono che questi sono comportamenti ormai quasi “atavici”, radicati in quello che Bufalino tristemente definiva “analfabetismo morale”, nei confronti dei quali sembrerebbe possibile fare ben poco.
C’è anche un altro aspetto dei gelesi, che non c’entra con lo scarso senso civico ma con altre caratteristiche, diciamo così, antropologiche, ed è la loro smisurata passione per le feste status symbol, che li porta a spendere anche decine di migliaia di euro per i diciott’anni dei figli, spesso indebitandosi, oppure per organizzare matrimoni con centinaia di invitati. Certo, in Sicilia il culto della famiglia è importante (in tutti i sensi, quelli positivi e quelli negativi), ma mi raccontano di casi in cui fratelli che da decenni si sentono soltanto per gli auguri delle feste comandate a un certo punto non si parlano più perché uno di loro non ha invitato tutti i parenti al pranzo di nozze della figlia o alla cresima del nipote. Le regole formali sembrano qui avere il sopravvento sulla sostanza dei legami. Questa ossessione delle forme è, come sottolinea Sciascia, una variante domestica e un po’ misera di quella che nel siciliano è una strana “passione del giuridico”, del cavillo, dell’argomentazione capziosa, forse eredità lontanissima di una sofistica gorgiana depauperata.
A proposito della famiglia, così scriveva Sebastiano Aglianò in un libro del 1945, Che cos’è questa Sicilia?, a suo tempo detestato in patria, ma che poi divenne un classico, ancora attualissimo, fra i ritratti di una terra amata e odiata dai suoi figli più coscienti:
Sicché avviene che le inimicizie tra congiunti sono tenaci, come tenace dovrebbe essere l’unione. Uno spirito talmudico domina sui vari atteggiamenti. Da una parte si ha la famiglia modello, prona sotto le regole di disciplina che non si vogliono tradire; dall’altra il caso del marito che non sa assolutamente perdonare alla moglie infedele e addirittura adopera la forza contro di lei, o l’odio eterno che si giura contro il fratello da cui si sono ricevuti dei torti.
Aspetti contraddittori nell’idea di famiglia su cui, per altri versi, in relazione al rapporto del siciliano con la vita pubblica, ritorna Sciascia:
La famiglia si afferma come la sola “istituzione davvero viva”. Tutto avviene come se, dentro la sua solitudine naturale, il siciliano avesse a disposizione soltanto la famiglia per adattarsi alla vita collettiva. (La Sicilia come metafora)
A proposito, invece, di status symbol, qui a Gela c’è un quartiere edificato negli anni Settanta a Capo Soprano, considerato dalla borghesia, e da coloro che ne adottano le forme (quelli che Carlo Levi in L’orologio chiamava i “luigini”), il salotto buono della città, diciamo un po’ come i Parioli. L’ho percorso in lungo e in largo, e ho avuto l’impressione di essere nella periferia anonima di un qualsiasi agglomerato urbano. Tra gli aspetti che più mi hanno colpito, però, vi sono i marciapiedi: di buona pietra, con gli scivoli negli attraversamenti per agevolare le carrozzine; ogni dieci venti metri ci si imbatte, lì per terra, nello stemma in bassorilievo della città, un’aquila coronata che poggia gli artigli su due piccole colonne doriche. Bello, un po’ esagerato rispetto al contesto, ma bello; peccato che il tutto fosse ingrommato di sporcizia depositatasi da anni anche sulla testa del fiero rapace.
Ora azzardo un paradosso provocatorio, ma dettato dall’affetto. Provo a spingere il discorso su un terreno più complesso e insidioso di quello della cronaca locale. I siciliani che ho conosciuto sono tutti amaramente consapevoli che la loro terra è piena di contraddizioni; meravigliosa e sporca, onesta e mafiosa, toccata dalla grazia e miserabile, generosa e omertosa, ecc. ecc. Molti fanno del loro meglio per arginare il degrado, molti giovani restano qui per provare a cambiare qualcosa, ma a volte in alcuni di loro mi è sembrato di ravvisare un inconfessabile e inconscio sottopensiero, quasi a sottolineare questi aspetti così divergenti come se si trattasse di qualcosa di ineluttabile e, in fondo in fondo, anche come ciò che rende così speciale e unica la Sicilia. È come se immaginare una Sicilia senza le sue contraddizioni facesse un po’ venir meno qualche “caratteristica” distinguente di questa terra. Insomma, in Sicilia ci sono cose straordinarie che spiccano ancora di più proprio perché si stagliano come divinità perdute sullo sfondo di cose nefande; il bianco è più luminoso se accostato al nero. Ho trovato poi in Gesualdo Bufalino (che non si può certo dire non conosca la sua terra e i suoi conterranei) una sorta di conferma di questa mia impressione:
Ogni siciliano è, di fatto, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. (L’isola plurale)
Poiché in nessun posto come qui lo splendore corre lungo un ciglione di funebri spine; né v’è raggio che non trabocchi dal cielo come il sangue da una ferita ..(Il nostro sole, ora in Saldi d’autunno)
Io credo che questo sottopensiero sia presente anche nel famoso monologo del principe di Salina quando rifiuta l’offerta di Chevalley di diventare senatore della nuova Italia. Non si tratta soltanto di semplice pessimismo, di fatalismo, o più prosaicamente di rassegnazione; aspetti messi in evidenza da tutta la grande letteratura siciliana moderna, da Verga a Pirandello, a Brancati, a Sciascia, a Bufalino. L’autoaccusa di Don Fabrizio, cioè di Tomasi di Lampedusa, è aspra e impietosa, insiste su quegli aspetti del carattere dei siciliani che li rende refrattari a qualsiasi cambiamento.
Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti […]
Nel discorso del Principe, come in molte pagine di altri scrittori siciliani, io avverto, però, una sorta di contrastata adesione a questo carattere dei siciliani e della Sicilia, la terra in cui le cose più opposte si tengono, si mescolano, confliggono e si amano, senza soluzione pacificante, in modo irrimediabile. É l’assunzione, fino in fondo, di questa diversità, sentita, se non con orgoglio, con amara ma insopprimibile partecipazione. Ai grandi scrittori siciliani piace ricordare che l’origine della loro visione del mondo è il pessimismo greco. Bisognerebbe però anche ricordare che da quel“pessimismo” (“pessimismo della forza”, direbbe Nietzsche) i greci hanno tratto un’intera civiltà, mentre in Sicilia, fa notare Don Fabrizio…
Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che così rimane condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d’animo.
La Sicilia, isola nel cuore del Mediterraneo, ha pagato nei secoli il prezzo di essere terra di conquista.
Tuttavia – scrive Sciascia in La Sicilia come metafora -, ironia della sorte, quest’isola mille volte invasa è stata tagliata fuori dalla storia dei grandi popoli e delle grandi culture: non ha conosciuto il nuovo, portato dagli eserciti napoleonici, non più della resistenza al fascismo, come invece il resto del Mezzogiorno e soprattutto il Norditalia: Qui non ci si è accorti della caduta di Mussolini, come non ci si è neppure accorti chiaramente della sua ascesa al potere, e siamo passati dall’amministrazione mussoliniana a quella dell’AMGOT (il Governo Militare Alleato dei territori occupati), senza traccia alcuna di inquietudine. Questi momenti di transizione, e dunque di rottura, ci mancano terribilmente ancora oggi, abbiamo vissuto esperienze che non hanno segnato alcun effettivo mutamento.
E a proposito di storia, così come per i rapporti famigliari e il rapporto con le istituzioni, anche il rapporto dei siciliani con il loro passato è molto spesso “retorico”, puramente celebrativo. É vero che questo aspetto fa parte del carattere nazionale degli italiani, ma qui assume una particolare sfumatura di rimozione, se non di oblio.
Prendiamo, per esempio, la ricorrenza del 10 luglio 1943, e cioè dello sbarco degli anglo-americani sulla spiaggia di Gela. Ogni anno, le amministrazioni comunali, di qualsiasi colore politico, organizzano giornate dedicate alla commemorazione istituzionale di questo importantissimo evento. Gli studi storici più recenti (se ne trova un’ampia sintesi in un lungo e documentato articolo di A. Cionci su La stampa del 24/02/2017)) hanno ormai accertato che quel che accadde in quelle giornate non fu proprio l’alba di una riconquistata libertà e l’inizio di quella democrazia che era invece ancora molto di là da venire.
Intanto, il passaggio delle truppe americane non è stata “una sorta di “passeggiata”, avvenuta tra festose distribuzioni di chewing gum e cioccolato”, ma ha lasciato dietro di sé dei veri e propri crimini di guerra, (fucilazioni ingiustificate di militari italiani prigionieri e di civili inermi, stupri e razzie). Lo stesso generale Patton aveva raccomandato ai suoi soldati di usare la mano pesante con quei “vigliacchi di italiani”. E poi c’è il capitolo dei “servigi” resi dalla mafia ai servizi segreti USA nel pianificare lo sbarco con quanto, soprattutto, doveva seguirne: “uomini d’onore” vennero messi a capo di città, al controllo di territori, furono nominati interpreti ufficiali dell’Amministrazione alleata. Insomma, gli Alleati fecero “un pericoloso passo verso la legittimazione della mafia” (vedi M. Liberti, Attacco alla Sicilia, su Focus Storia 63).Tutti temi scottanti, che però sono assenti dalle celebrazioni che ogni anno si svolgono a Gela, a cui partecipano militari americani e funzionari dell’ambasciata, in un clima commosso e al tempo stesso festoso con, a volte, la sfilata per le strade della città dei mezzi militari con figuranti e bandierine, o addirittura simulazioni dello sbarco. Ora, è vero che l’ufficialità delle cerimonie ha sempre bisogno di un certo tasso di retorica e anche di spettacolarizzazione; è vero che è giusto sottolineare l’importanza della pace e della fratellanza fra i popoli; è vero che si deve sottolineare il contribuito fondamentale di quell’evento alla fine di una dittatura; ma è anche vero che non si può passare più o meno sotto silenzio il fatto (o i fatti) che il processo di democratizzazione in Sicilia non è cominciato nel più favorevole dei modi e ha fatto poi molta fatica a procedere.
E a proposito di cammino verso la democrazia, credo abbia ragione Sciascia nel ricordare come la mancanza di una Resistenza abbia impedito alla coscienza civile dei siciliani di fare i conti con il loro rapporto con il fascismo e di avere quindi anche quel tipo di esperienza di nuova comunità, che invece ha permesso a molti di coloro che hanno partecipato alla lotta partigiana di affrontare il dopoguerra con un grado di consapevolezza politica decisiva per le sorti dello Stato che stava faticosamente nascendo. Singoli siciliani hanno dato il loro contributo alla Resistenza nel Nord (un nome per tutti, il comandante “Barbato” Pompeo Colajanni), ma quando sono tornati in Sicilia non sono riusciti a “comunicare” ciò che avevano vissuto, anzi, in molti casi hanno trovato solo ostilità. Lo storico Rosario Mangiameli, in Antifascismo e Resistenza visti dalla Sicilia, documenta molto bene l’isolamento in cui sono venuti a trovarsi.
Per non concludere. Nel 1967 Giuseppe Fava, che sarà assassinato dalla mafia nel 1984, raccoglieva in un volume le inchieste svolte l’anno precedente. In una di queste si parlava di Palma di Montechiaro, cittadina tra Licata e Agrigento, e che dovrebbe essere la Donnafugata del Gattopardo: vi si denunciava lo stato di degrado e la tragica povertà in cui versava da sempre, dimenticata da tutti i governi; finché nel 1962 una legge speciale stanziò undici miliardi da spendere per lavori fondamentali nel territorio, soprattutto per il servizio idrico e le fognature. Passarono i quattro anni previsti per presentare i progetti, la commissione preposta si riunì solo due volte, non se ne fece nulla e i miliardi rimasero a “dormire” da qualche parte. Poi i quattro anni vennero prorogati ma senza grandi risultati, come risulta anche da un servizio della Rai del 1989. Nel 2022, nella presunta terra del Gattopardo finiscono in galera gli esponenti (tra questi un consigliere comunale) del “paracco”, la cosca mafiosa locale alternativa a Cosa Nostra e alla Stidda. A Palma l’acqua nei rubinetti scorre a turni per un giorno alla settimana, perché le tubature, come in buona parte della Sicilia, sono ancora un disastro. Ma per fortuna non manca il vino; due giorni dopo la sentenza che condanna dieci esponenti del “paracco” si tiene al Saudade Verao Club a Marina di Palma la prima edizione del Gattopardo wine (sic!), nell’autocompiacimento di cittadini e autorità. Chissà cosa avrebbe detto il Principe…Qualcosa, a dire il vero, l’aveva già detto, a suo tempo.
Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.
Non sono nessuno per fare appelli ai siciliani di buona volontà, a coloro (li ho conosciuti) che si sentono a volte stranieri nella loro terra che amano e odiano insieme, ma da siciliano d’adozione mi piacerebbe che accanto alla “rassegnazione” sorgesse uno spirito di “rivolta”, se necessario anche contro se stessi. Pessimismo, disincanto e rivolta possono stare insieme e possono produrre cambiamenti, ma solo se superano l’individuo e aprono a una forma di coscienza collettiva.
Ce l’ha indicato Albert Camus, forse non a caso un uomo del Sud, portatore di un “pensiero meridiano”:
Il primo progresso di uno spirito intimamente straniato sta nel riconoscere che questo suo sentirsi straniero, lo condivide con tutti gli uomini, e che la realtà umana, nella sua totalità, soffre di questa distanza rispetto a se stessa e al mondo. Il male che un solo uomo prova diviene peste collettiva. In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. È un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo. (L’uomo in rivolta)
Ex insegnante di Filosofia e storia nei licei ed ex docente a contratto di Estetica presso EGART a Ca' Foscari. Ora in pensione.
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